Caccia e gestione: il contenimento del cinghiale

Attualmente la diffusione del cinghiale tiene in allerta l’intero territorio nazionale. La presenza è divenuta così persistente e capillare da rendere problematica la coltivazione in alcune aree agricole, la gestione sanitaria dei rifiuti in altre urbane, la sicurezza stradale in genere. Affrontare quello che oggi è classificato come un vero e proprio problema nazionale richiede tuttavia un approccio scientifico e una sintesi delle istanze tecniche che delinei un programma a lungo termine per il contenimento e la riduzione dell’espansione di questa specie.

La presenza e l'incremento non solo della specie cinghiale ma in genere degli ungulati ha reso difficile o in molte aree impraticabile l'attività agricola

È su questa premessa che si nota subito un chiaro fallimento del processo dialettico che dovrebbe evidenziare soluzioni strutturali estranee al pregiudizio. Il dibattito oscilla come una bandiera al vento, mancano delle cabine di regia obiettive e concrete e l’argomento si sposta dall’ambiente venatorio a quello ambientalista come una pallina da tennis. Emerge una chiara tendenza in alcuni ambienti, nel creare ex-novo un sapere sul problema ideale a sostenere le proprie particolari mission di bandiera. Questo trascina ogni confronto da una necessaria analisi asettica e oggettiva del problema a un piano più ideologico in cui a essere evidenti ed esasperate sono più le posizioni di parte che non le analisi tecniche. Continuiamo a scadere nella tifoseria che tenta di rivendicare posizioni di primariato. Sedicenti luminari sciorinano decine di preziosi contributi dalla letteratura scientifica interpretati per lo più perché siano punto di appoggio per alcune storiche teorie di gruppo, formule estrapolate da contesti complessi per giustificare ragionamenti articolati per demolire le teorie del proprio nemico di turno. A volte si evince la ricerca di collaborazione da parte di enti istituzionali per perorare una causa che gli stessi enti, in altre sedi, hanno già ampiamente smentito. Mi viene in mente la teoria del matriarcato assoluto nella specie cinghiale che lascerebbe l’accoppiamento alla sola scrofa dominante (alfa). Un profilo zoologico tipico del lupo e non del cinghiale. È una classica partita politica, meglio dire partitica, che si dimena nel tentativo di acquisire visibilità e autorevolezza al fine di screditare e eliminare il proprio competitor.

La lotta di classe ha generato mostri culturali che continuano a cercare alleanze nelle Università, spulciano studi scientifici pescati alla bisogna in lontani istituti e siglati da sconosciuti professori, poche righe di ricerche che si contrappongono alla scienza ufficiale e il cui effettivo valore è unicamente nell’essere riusciti a trovarle sepolte nella bibliografia contemporanea. Il problema è molto più esteso e complesso per essere lasciato nelle mani delle tifoserie trans-sociali.

I parchi non sono un’innovazione della natura, ma un costrutto umano, vanno pertanto gestiti e soggetti al vaglio di commissioni che ne garantiscano la costante stabilità e sostenibilità.

Non mi sorprende se a oggi non solo non abbiamo avuto contezza di possibili soluzioni al tema, ma non siamo riusciti nemmeno a evidenziare con chiarezza le cause e il perché della diffusione di questo fenomeno. Senza prendere le parti di nessuno allarghiamo l’osservazione sul fenomeno e proviamo a ragionare in modo indipendente. In prima istanza, il tema della proliferazione eccessiva di alcune specie di animali, non riguarda solo il nostro paese e non riguarda solo il cinghiale. Il pianeta ungulato vive un periodo particolarmente prolifero e segna ovunque dati in crescita costante che superano di molto i livelli di criticità. È di questo periodo la comunicazione che il Parco dello Stelvio ha richiesto l’abbattimento di almeno 1500 cervi che minacciano la biodiversità e le altre specie presenti. 

Queste specie trovano oggi facilità di riproduzione e diffusione praticamente in tutte le aree del mondo a loro congeniali, con ampi sconfinamenti in porzioni orografiche e altimetriche generalmente a loro non gradite. A cinghiali, cervi, caprioli, daini, si aggiunge anche la diffusione rapidissima del lupo e, come malauguratamente sperimentato, anche quella dell’orso in alcune aree fin troppo circoscritte dell’arco alpino. A questi si uniscono nutrie, roditori in genere e lepri, dediti a danneggiare porzioni consistenti degli argini della rete idrografica e a nutrirsi di raccolti in via di maturazione. Sono animali la cui natura li porta a svilupparsi velocemente laddove incontrano condizioni ambientali favorevoli. È prima di tutto una regola biologica e non risvolto della pressione, almeno diretta, della specie umana. Il cambiamento delle condizioni generali del clima o, per dirla in termini meno modaioli, l’insistenza e la frequenza di fenomeni metereologici particolari, l’aumento medio delle temperature durante l’arco l’anno, libera spazio e opportunità a molte specie, mentre crea difficoltà estreme per altre e costringe pian piano l’uomo a ritrarsi nelle città abbandonando aree per secoli conservate e mantenute in equilibrio. A questo fenomeno si unisce l’incremento delle aree boschive, che lascia avanzare le foreste e incrementa le porzioni di habitat disponibile.

Il processo di proliferazione del cinghiale

Prima di proclami sulla proliferazione del cinghiale a causa della pressione venatoria sarebbe da analizzare proprio la zoologia di questo animale. Il cinghiale è uno degli animali più adattativi che esistano, riesce a sopravvivere e riprodursi in alta montagna tra le nevi o sulle spiagge della Sardegna, trovando cibo e adattandosi ad alimentazioni tra le più estreme e variegate. Le cucciolate hanno una resistenza senza pari e la prolificità, anche questa propria del patrimonio genetico della specie e non legata a immissioni (come specifica Pietro Genovesi di ISPRA), crea una trend di crescita non costante ma simile a una progressione geometrica. Va da sé che questo animale, come alcune alghe o alcuni pesci, abbia fortemente beneficiato delle condizioni generali che si manifestano negli ultimi anni.

Ovunque c’è una condivisibile volontà di creare aree protette e parchi, zone precluse ad attività antropiche ed escluse da sfruttamento agricolo, edilizio, industriale oltre che venatorio. I parchi non sono un’innovazione della natura, ma un costrutto umano, vanno pertanto gestiti e soggetti al vaglio di commissioni che ne garantiscano la costante stabilità e sostenibilità. Nella maggior parte dei progetti posti in essere è invece evidente la mancanza di un piano di gestione pluriennale che lascia libere alcune specie più invasive di surclassare le altre presenti e estendere il proprio dominio al di là dei confini biologici. Quando queste aree contano numeri esasperati di capi cominciano a rigettare colonie di animali alla ricerca di cibo, riparo e risorse, finendo in molti casi, con lo scontro aperto con le città o le imprese agricole.

Il problema del contenimento cinghiale assume spesso connotati ideologici e non propriamente scientifici 

Non ultima, sebbene più particolare e in attesa di attestazione scientifica, c’è una questione di socialità e diffusa antropizzazione di molte aree fino a qualche anno fa appannaggio dei soli pionieri ed escursionisti audaci. L’incremento esponenziale di alcuni sport di montagna, l’impennata della presenza dell’uomo nella rete boschiva nazionale, la creazione di numerosi sentieri che si inerpicano e trasportano camminatori ed escursionisti in aree profonde delle zone verdi del paese, ha aumentato rapidamente le occasioni di contatto tra esseri umani e fauna selvatica. L’odore e la presenza dell’uomo, resti di cibo e a volte spazzatura, diventano familiari. La riscoperta dell’outdoor come fonte di rigenerazione e contatto con la “madre terra” porta milioni di persone in fuga dal grigiore cittadino dentro i territori selvaggi, creando condizioni di familiarizzazione con gli animali che al di là della meravigliosa immagine da “mano nella mano con la natura” ha forti implicazioni sulla gestione del territorio. Basti pensare che alcune aree alpine cominciano a sentire il bisogno di inserire il numero chiuso per le presenze perché non più sostenibile dalle aree interessate. Gli animali si allontanano dalle loro zone native.

Includiamo come ovvia estensione a questo “naturalismo turistico contemporaneo” è la propensione del tutto scellerata a foraggiare animali selvatici come “gesto d’amore”, specie in prossimità delle città, dove gli animali hanno sempre transitato tenendosi tuttavia a debita distanza. L’uomo non è più percepito come una minaccia ma come fonte di cibo e figura familiare del proprio ecosistema, in particolar modo per specie come gli ungulati che sono facilmente addomesticabili e adattative.

Questi sono solo alcuni aspetti della fitta rete di concause che partecipano a innescare il processo di proliferazione di queste specie. 

Spazi di analisi dunque molto più ampi di una chiacchierata su un gruppo di cinghiali localizzati in alcune zone del territorio italiano; e tempi di azione e contenimento molto più lunghi di quanto si voglia far credere. 

Il tema non si esaurisce con un intervento sull’anno a venire ma crea interrogazioni e azioni sulla gestione delle specie per i decenni a venire che prevedano, al di là del tema “cinghiale” anche l’opportunità che queste condizioni generali lascino emergere altre specie invasive, come il granchio blu salito alla ribalta qualche mese fa, sta a dimostrare.

Ridurre il problema a una battaglia ideologica sul cinghiale, obiettivo venatorio, è riduttivo, superficiale e pretestuoso, mi sorprendo come illustri uomini di cultura si prestino a essere utilizzati come strumenti da brandire come l’una o l’latra parte senza dare credito a un’interpretazione più aperta e inclusiva di una criticità naturalistica estremamente diffusa. Le soluzioni infine proposte sono sommarie e sempre accompagnate da un “seppur” o da un “anche se”, un giustificativo che richiederebbe un approfondimento dettagliato e che, inoltre, manca sempre di un effettivo piano di azione che riporti con chiarezza lo sforzo necessario per l’attuazione, le risorse, i tempi e i costi, elementi essenziali e imprescindibili per articolare una concreta proposta alternativa o un progetto d’insieme che possa interessare la comunità.

Davanti a un sistema faunistico in piena trasformazione il dibattito resta limitato a una specie e a condizioni marginali legate alla sua “notiziabilità” attuale. Mi chiedo quando le autorità competenti, organi governativi autorevoli, comincino ad elaborare la questione aprendo il panorama a istanze molto più ampie e evidenziando concause e con con-soluzioni da esporre per programmare un sistema di controllo e gestione della fauna che non riguarda solo il cinghiale, ma che a vario titolo, ha già incluso di diritto numerose altre fette della popolazione faunistica internazionale.