Un vaccino per ridurre il numero dei cinghiali: analisi di una soluzione improbabile

Sul piano degli interventi pesa la difficoltà delle popolazioni animali autoctone davanti al proliferare, in particolare degli ungulati, degli incidenti stradali e degli ormai incalcolabili danni all’agricoltura provocati dalla fauna selvatica che approfitta di una congiuntura particolarmente ideale tra clima, forestazione, disponibilità di cibo, per incrementare la propria presenza sui territori e spostarsi liberamente in areali sempre più idonei.  Sul piano delle azioni intraprese grava invece il pesante fardello del consenso politico che continua a sottomettere il concetto di monitoraggio, controllo e riduzione a quello di un mite intervento indolore e incolore sulla fauna che ha più il sapore di una sceneggiatura cinematografica che non di una soluzione politica ed economica al problema. La questione è di ordine tecnico ed economico e non si può affrontare con un approccio sentimentale o ideologico. Si uniscono dunque ai recenti fallimenti, come quello della deportazione dei cinghiali in aree che sarebbero state ritenute più accoglienti e sicure per gli animali, altre forme di sperimentazione che vedono oggi nei vaccini, forse incoraggiati dal periodo pandemico, una delle soluzioni più promettenti. Somministrare vaccini immuno-contraccettivi alle specie ritenute dannose, sembra essere una via che assicura all’organo decisionale la protezione dalla ferocia social dell’opinione pubblica e un triennio di tranquillità mentre si aspettano i risultati di un tentativo che, a quanto sembra, nasce già fallimentare.

Vaccino per i cinghiali? 

Il contenimento delle specie in esubero sembra avere spesso come obiettivo primario l'esclusione della caccia e dei cacciatori dalla gestione ambientale, quando invece rappresenta l'unica risorsa attiva e tecnica capace di intervenire in modo capillare sul territorio

Attenzione. Il tema è decisamente complesso, lo riconosciamo, e la sua soluzione passa per un ventaglio di interventi diversi, la cui organizzazione potrebbe veramente rappresentare un valido contributo al controllo delle specie  problematiche. Tuttavia, piuttosto che procedere in modo coordinato e incisivo, sembra perseverare la ricerca di una soluzione non invasiva, non violenta, non visibile, che possa incontrare le istanze di un manipolo ridotto ma agguerrito di sterilizzatori seriali ben lontani dalla realtà dei territori e dai valori in ballo. Lo stanziamento previsto può soddisfare le richieste di alcuni ambienti, ma è lontanissima dal porre un freno alla proliferazione delle specie dannose e dal trovare un opportuno, quanto tempestivo, rimedio alle problematiche rappresentate. La questione che pesa maggiormente sugli immuno-contraccettivi come il GonaconsTM scelto per la terapia è l’attuale impossibilità di somministrarlo per foraggiamento, ma solo per inoculazione diretta nell’animale. Una tecnica quasi impossibile da adottare sull’interezza del territorio nazionale e che resta comunque un metodo che da circa un decennio è ancora allo studio dei laboratori statunitensi che hanno perfezionato il vaccino. Il dispositivo medico è solo inoculabile pertanto deve essere prevedibile e pianificabile una cattura di massa, in un tempo ristretto, delle femmine della specie target per avere un effetto quanto meno visibile. Il GonaconsTM, come mostra la letteratura scientifica è efficace per un periodo che oscilla tra i 3 e 5 anni, un dato piuttosto aleatorio, che peraltro nel caso della longevità di cinghiali, caprioli, daini e cervi, maggiormente responsabili dei danni alle coltivazioni e degli incidenti stradali, non ci sottrarrebbe dal dover re-inoculare i soggetti già vaccinati e i nuovi nati da quelli non trattati, in almeno seconda e poi terza dose. Troviamo conferma in questa analisi nelle parole del dott. Riccardo Primi, ricercatore dell’Università della Tuscia, che da anni si occupa di studiare e monitorare l’efficacia dei piani di gestione e controllo delle specie problematiche. Primi, peraltro, ci ricorda alcuni dati significativi: “La popolazione dei cinghiali è cresciuta negli ultimi 10 anni da 500 mila capi a 1 milione (dati stimati da ISPRA)”.

Un piano di cattura e trattamento che se calato sull’interezza del territorio nazionale e sul numero dei capi da trattare, richiederebbe, senza dover nemmeno ipotizzare studi specifici, uno sforzo di risorse ad oggi pari solo a quello inscenato dal paese nella lotta al Covid, con l’aggravante che non avremo centri di vaccinazione con file consenzienti di pazienti pronti ad accogliere il vaccino e con una popolazione non-senziente interessata che perlopiù abita zone vastissime, impervie e spesso irraggiungibili.

Il costo di inoculazione per ogni capo è stimato, dagli stessi sperimentatori statunitensi, tra i 500 e i 1000 dollari – sottolinea Riccardo Primi –; è ovvio che sia un’impresa titanica se non da definire a priori impossibile. Resta tuttavia il fatto – e su questo condividiamo il parere dell’esperto – che la scienza si stia muovendo per arginare un fenomeno che è ormai salito alla ribalta pubblica e che vede coinvolte anche le città metropolitane invase da specie che dovrebbero vivere lontane dai centri urbani. La scienza si muove per esperimenti, tentativi, studi, dai quali ottiene informazioni utili per costruire approcci scientificamente più validi. L’utilizzo di questi vaccini è uno dei banchi di sperimentazione da cui potremmo trarre delle informazioni utili”.

I fondi stanziati per il contenimento delle specie selvatiche pur interessando cifre importanti rappresentano risorse del tutto insufficienti sul territorio nazionale per ottenere risultati duraturi

I fondi stanziati sono di fatto briciole per un’attività che coinvolge la quasi interezza del nostro territorio. Alcuni articoli giornalistici riportano trionfalmente il raggiungimento di obiettivi utopici come quello di poter introdurre il vaccino nel foraggio grazie alla ricerca prodotta con questi stanziamenti. Questa purtroppo è un’altra grossolana banalizzazione, visto che grideremmo al miracolo se i 200 mila euro annui stanziati potessero essere sufficienti a raggiungere un obiettivo scientifico che negli USA, come detto sopra, è allo studio da un decennio almeno. L’interessantissimo studio della Dott.ssa Massei (The Food and Environment Research Agency) descrive in modo interessante e imparziale il funzionamento dei dispositivi immuno-contraccettivi ed evidenzia come si evinca dalla letteratura scientifica internazionale la mancanza di una piena efficacia del rimedio. 

Molte domande, di fatto, restano senza risposta alcuna. Anche lo studio condotta dai Dott.ri Valentina La Morgia e Piero Genovesi (ISPRA), proprio con il supporto della Dott.ssa Massei, sull’eradicazione dello scoiattolo grigio dall’Umbria grazie all’utilizzo del GonaconsTM, non conduce a una soluzione ancora percorribile, né a risultati che potrebbero confortare o sostenere un intervento basato su questo metodo. Dati ottenuti dopo accurate osservazioni e peraltro confortati da studi condotti in ambienti controllati. Cosa vuol dire ambiente controllato? Vuol dire sperimentare su una serie di soggetti in aree chiuse, osservati costantemente e in condizioni ideali. Diverso è praticare le stesse dinamiche in natura, dove, la storia ci insegna, troveremmo infinite altre problematiche. Oltre a soddisfare i requisiti minimi del sistema dovremmo anche chiederci: “Cosa accadrebbe alle femmine vaccinate e quindi non prolifiche in un branco che in natura si conserva proprio grazie alla funzionalità specifica di ogni soggetto? Quelle femmine sarebbero allontanate perché ritenute inutili? Difettose? Svilupperebbero aggressività nei riguardi di altri soggetti del branco, di altre specie? Le carni disponibili per i predatori potrebbero essere non completamente sane per altre specie che si cibano di questi animali? Attaccherebbero i cuccioli delle altre femmine non vaccinate? Entrerebbero in fasi di “calore” continuo movimentando e agitando le popolazioni dei maschi? 

Sono dinamiche molto naturali di cui, come anche il Dott. Primi ci conferma, non conosciamo gli esiti e avremmo grandi difficoltà a studiare in ambienti naturali aperti”. Sono tanti gli esempi di esperimenti condotti su popolazioni numerose sottoposte a interventi invasivi fortemente alteranti, i risultati sono stati sempre disastrosi, giungendo in molti casi all’emersione di classi sociali e abitudini inaspettate finanche anche al cannibalismo (“Universo 25” - John Bumpass Calhoun. Il 9 luglio 1968, Istituto Nazionale di Salute Mentale, Bethesda). La destrutturazione delle piramidi sociali tramite un’azione venatoria non selettiva può portare a problematiche nella comunità delle specie, lo sappiamo, tuttavia l’intervento profondo sulla loro biologia potrebbe aprire invece scenari mostruosi.

Inseguire la chimera della soluzione tout-court per la proliferazione del cinghiale è uno sport più politico che scientifico e ancora una volta rischia di far perdere tempo e risorse al paese. Il tema irrobustisce la sua complessità e la sua poca profondità già nelle premesse. Nasce dalla gestione della fauna selvatica, in cui rientrerebbero ad esempio le nutrie ed altre numerose specie che per via di leggi obsolete sfuggono al controllo, si restringe agli ungulati e poi naufraga sul solo cinghiale senza considerare che in molte aree, caprioli, daini e cervi, brucatori selettivi e chirurgici aggressori di vigneti e macchie in ricrescita, rappresentano il primo flagello. In uno studio condotto da un gruppo di ricercatori su circa 20 tratti stradali tra Toscana, Umbria e Abbruzzo, le specie citate partecipano quasi in egual misura al numero degli incidenti stradali. In alcuni casi gli eventi provocati dai caprioli superano di gran lunga quelli dei cinghiali. Va da sé che le attività pianificate, o gli esperimenti in programma come la somministrazione di eventuali vaccini per il controllo della natalità, andrebbero predisposti anche per altre specie target evitando, a medio termine, che la miracolosa diminuzione di una specie non coincida con l’esponenziale espansione di un’altra. Come la stessa Dott.ssa Massei riporta chiaramente nel suo studio: “Dal punto di vista applicativo, il controllo della fertilità si presta meglio a gestire popolazioni isolate che non animali presenti su vaste aree la cui distribuzione appare di fatto senza soluzione di continuità” (da: “Il controllo della fertilità nella fauna selvatica: una soluzione praticabile?”)

La popolazione spesso inconsapevole rappresenta spesso la prima causa del  proliferare di alcune specie di selvatici opportunisti. Una mancata gestione dei rifiuti e tutela dell'ambiente causano l'avvicinamento dei selvatici ai centri urbani alterando completamente i normali equilibri naturali 

Ancora una volta una minoranza mal rappresentata riesce a mescolare il sentimentalismo con la politica, l’edulcorazione con la scienza, generando mostruosità nei provvedimenti e strumentalizzando in modo poco trasparente alcune istanze che servono più a una battaglia ideologica. In tutto questo panorama la caccia come entra in scena? Ad oggi l’attività venatoria è l’unica attività in grado di mostrare un reale contributo al contenimento delle specie selvatiche dannose, tanto che nella medesima manovra del governo è espressamente consentito ai conduttori di terreni o proprietari, in possesso di regolare licenza di caccia, di poter catturare o abbattere cinghiali dannosi per i raccolti e disporre delle carni, attività che non rappresenterebbe nemmeno esercizio venatorio e potrebbe essere delegata anche a “operatori” abilitati. Il problema cinghiale attanaglia oggi l’Europa intera, pertanto lasciamo cadere le sterili accuse contro singole categorie che beneficerebbero della proliferazione di questi animali. Si passa da qualche decina di abbattimenti negli anni 90 per arrivare a picchi di 200.000 abbattimenti attorno al 2010 (600.000 in Francia e Germania), periodo in cui si nota una piccola flessione per poi segnare una decisa ripresa. Il contributo dell’azione venatoria, stando ai dati ISPRA incide nel solo trimestre di attività per il 20% della popolazione totale dei cinghiali, numeri che ad oggi non è possibile esprimere con nessun altro strumento. Gli ultimi 2 anni, caratterizzati da limitazioni dovute alla pandemia, hanno ridotto fortemente l’azione venatoria. Chiusure, contagi, confinamenti, hanno ridotto la pressione venatoria sul cinghiale. Ad oggi mancano decine di miglia di abbattimenti che equivalgono alla sopravvivenza di soggetti in età fertile che hanno già prodotto migliaia di altri esemplari.

Il contesto in effetti richiede urgentemente una maggiore formazione globale e una raccolta di dati scientifici che contribuisca a definire il ruolo della caccia nel contesto della gestione delle specie sempre più attivo e pacificato. I principi della caccia di selezione sono il primo passaggio tecnico-scientifico utile a definire una funzionalità attiva del cacciatore e della caccia e un reale contributo al raggiungimento di obiettivi specifici. Oggi la politica dispone di un esercito organizzato, distribuito capillarmente sul territorio, capace di intervenire in modo puntuale, preciso e perentorio in ogni angolo provinciale, comunale e distrettuale. Una parte della popolazione che, nell’esercizio di una passione, incrocia oggi le esigenze della comunità in materia di gestione delle specie nocive. Queste risorse non solo non hanno un costo, ma contribuiscono esse stesse al mantenimento della salute e dell’equilibrio delle specie. Uno stanziamento adeguato andrebbe previsto per fissare i principi base della caccia sostenibile, degli interventi mirati, delle cacce funzionali agli obiettivi ambientali. È un processo che non può essere né trascurato né ovviato e che, oltre a rappresentare un’immediata utilità è anche una profonda risorsa economica. Il sistema della caccia aspetta, come già sperimentato in alcune regioni, la possibilità di poter utilizzare a scopi commerciali le carni dei cinghiali catturati (ad esempio), per poter finanziare e sostenere l’attività venatoria senza che il paese debba farsi carico di oneri ulteriori. Insomma, descritto in modo rapido e senza volerne approfondire i dettagli, abbiamo una, non la sola, ma una efficace azione al contenimento di molte specie dannose e al ripristino di equilibri compromessi nella fauna delle regioni.

Quali sono le conclusioni? 

Da una parte non può essere ammessa l’ingerenza ideologica perché i temi in ballo sono di ordine tecnico-economico e non vanno inquinati da contesti velleitari fomentati da integralismi vetero-ambientali. Dall’altra parte c’è un sistema che va ripensato e contestualizzato per diventare uno strumento utile e di corredo alle attività di gestione territoriale delle istituzioni e delle organizzazioni scientifiche. Per raggiungere questo obiettivo serve formazione e capacità organizzativa, strutture mosse da interesse comune e che abbiano una linea di dialogo aperta e comune sui temi. In mezzo la politica, che non può continuare questa mediazione senza soluzioni, inseguendo come lanterne nella notte mode e tendenze che strizzino più gli occhi ai social network che dare effettive soluzioni ad agricoltori, allevatori e mondo venatorio. Il cacciatore è un profilo che per motivazioni demografiche e culturali dovrà essere quanto prima professionalizzato e raggiungere, in particolare nelle azioni di contenimento e gestione degli ungulati, gli obiettivi già raggiunti in Francia dove i colleghi di Loire e Indra saranno pagati per esercitare il controllo selettivo di questa specie. Il miraggio di un vaccino anticoncezionale invece è un sistema che va certamente studiato e valutato come una delle possibili istanze da accostare con metodo a interventi di precisione, ma non può né potrà essere la soluzione definitiva e di massa, lo sappiamo già. Non siamo riusciti a vaccinare l’intera popolazione umana contro il Covid malgrado uno sforzo inimmaginabile fino a 2 anni fa, investimenti mai contemplati nella storia del nostro paese, mettendo al servizio della sanità legislazioni specifiche e risorse tali da produrre cambiamenti storici e vogliamo pensare di richiamare a noi tutti gli ungulati del paese e inocularli? Presto raggiungeremo una comune consapevolezza che la proliferazione degli ungulati rappresenta un problema serio. Dissuadere gli animali per indirizzarli altrove non mette fine alla proliferazione. La loro intelligenza si adatta e supera di gran lunga la tecnologia che proviamo goffamente a mettere in scena. Per il paese abbiamo trovato Draghi, per la questione ungulati? Non credo San Francesco sia disponibile.