Carne selvaggia: carnivori di tutto il mondo unitevi! Nona parte: “Il cervo e la sua storia” di Bu:r

Foto ritratto dello chef italo-olandese. Eugenio Boer ha 45 anni e una passione per la cucina nata in tenera età. Ha conquistato una stella Michelin nel 2017. Maître di sala del suo ristorante è la moglie, Carlotta Perilli.

“Il cervo e la sua storia” è un piatto che lo chef Eugenio Boer tiene a raccontare. E lo merita: «È un piatto che è nato a Milano, dopo qualche anno che ero diventato chef, ma ripensando alla mia ultima notte sulle Dolomiti, al St.Hubertus di San Cassiano del mio maestro Norbert Niederkofler. Dopo l’ultimo servizio con Matteo Metullio, eravamo due capi partita, mi disse: “ti porto a mangiare da uno dei miei primi maestri”. Ricordo una curva che era completamente al buio, con i fari che illuminarono nei campi una quantità di cervi mai vista. Rimanemmo basiti e quell’immagine mi è rimasta dentro. La rivivo con piacere ogni volta che mi capita di impiattare un filetto di cervo. È un primo piatto che serviamo nel menu dei classici da 11 anni. È servito su pietra, mentre gli altri piatti su ceramiche bellissime, senza posate: è un piatto materico, che si è liberi di mangiare con le mani».

Boer, chef del suo ristorante milanese bu:r (http://www.restaurantboer.com/), ha 45 anni e cucina da quando ne aveva 12. Cresce in Olanda, a Voorburg, fino all’età di sette anni, quando la famiglia si sposta in Italia, a Sestri Levante (Ge). A soli tre anni Eugenio inizia a mettere le mani in pasta insieme alla nonna materna, cuoca di professione, che si era trasferita nei Paesi Bassi portando con sé la sua impastatrice dell’Imperia. A 12 anni insiste per andare a lavorare in un ristorante, ma grazie al padre continua gli studi, si diploma in ragioneria e nel frattempo impara le basi della cucina facendo pratica in alcuni ristoranti sestresi. Poi assorbe il mix di varie culture peregrinando tra grandi ristoranti e grandi chef tra Sicilia, Toscana e Alto Adige, approdando infine a Milano e alla stella Michelin nel 2017.

Chef Boer, la storia del cervo è romantica e ha molta attinenza con le emozioni della caccia, il piatto è primitivo: ci spiega come cucina il cervo?

Il cervo e la sua evoluzione, piatto storico di Boer, “primitivo” per cottura e impiattamento e romantico per come lo chef ne ricorda l’idea iniziale.

«È filetto di cervo crudo che viene frollato da noi una decina di giorni e poi condito con il grasso recuperato da tutti i tipi di carne che cuciniamo, una specie di lardo, un intingolo condito con erbe e sciolto a bassa temperatura, con il quale andiamo a cuocere alla lampada. Insomma la carne cuoce e non cuoce, viene servita a una temperatura di 37 gradi, per far rivivere il momento della caccia come estremo rispetto dell’animale. La carne di cervo è accompagnata con foglie di verdura e coulis di lamponi alla senape, radici di menta e mousse di foie gras. Ingredienti che hanno uno scopo preciso: replicare l’ultimo pasto dell’animale (il bruch, ndr), il sangue versato e la consistenza della terra bagnata. È primitivo, assolutamente, e deve rimanere tale, nel pieno rispetto della tradizione del Nord Europa e del Nord Italia».

Nel suo profilo scrive che ha capito che la cucina ha un enorme valore culturale imparando a trovare nel passato la chiave per il futuro. In questo c'è anche l'uso della carne di selvaggina? E poi c'è la questione della tradizione culinaria che mi pare preveda numerosi piatti a base di selvaggina o cacciagione. Lei tende a rispettare la tradizione...

«Mi piace da una vita la cacciagione e la apprezzo tantissimo, sia dal punto di vista della tradizione, ma anche proprio come sapore. Io sono mezzo olandese e in Olanda siamo abbastanza abituati a mangiare selvaggina. Nelle dune vicino al mare, nella zona di Den Haag e Wassenaar, si spingono numerosi uccelli migratori e ci sono tanti ristoranti che ne propongono le carni. Nel Sud, più collinare, ci sono anche ungulati che vengono cucinati con marmellate zuccherine e acide. Poi io ho vissuto e lavorato in Toscana: cervo, daino, cinghiale, fagiano e piccione sono sempre stati all’ordine del giorno. Io sono un classicone, non faccio avanguardia in cucina. Ovviamente la presentazione è moderna, con regole tutte nostre, ma tanta sostanza…».

Esistono modi moderni per cucinare la selvaggina, per sfruttarne appieno le caratteristiche e le peculiarità?

“Il piccione nella bassa mantovana”, altro piatto del menu dei classici: “Va cotto in carcassa in maniera delicata, fatto riposare e servito al sangue, in modo di apprezzarne la carne, il sapore e la tenerezza”.

«Cucinarla bene è la base fondamentale, io sono attaccato alla tradizione, ho visto come veniva cucinata in passato, e penso di alleggerire ed esaltare. Non ho paura di lasciarla un po’ più al sangue o di servirla cruda: la coagulazione del sangue tira fuori il sapore più selvatico, io lo combatto. Il piccione stesso va cotto in carcassa in maniera delicata, fatto riposare e servito al sangue, in modo di apprezzarne la carne, il sapore e la tenerezza; se si cuoce troppo, invece, diventa duro e tira fuori la parte più ematica e il gusto di selvatico. Ho avuto grandi maestri per questo in Gaetano Trovato all’Arnolfo di Colle Val d’Elsa (Si) e in Niederkofler al St.Hubertus di San Cassiano (Bz). La Toscana e l’Alto Adige sono ispiranti al 100 per mille».

I clienti in che modo apprezzano la carne di selvaggina?

«Il cliente che chiede selvaggina è sicuramente un appassionato. Vedo tanti giovani che la mangiano e sono curiosi di mangiarla».

Lei collabora anche con la macelleria Zivieri per la carne di cervo. E le altre carni di selvaggina?

“Anatra”, piatto attualmente in carta al ristorante bu:r di Milano. È petto con uva fragola, sedano rapa e rosmarino.

«I Zivieri sono grandissimi conoscitori di carne, hanno un’enorme esperienza: sono una piccola bottega di Zola Predosa, nel Bolognese, che fa un lavoro incredibile e tiene alto il suo nome. Ho il piacere di scegliere l’Italia, sempre, soprattutto per le materie prime. Acquisto cervi emiliani vissuti in libertà, cacciati in selezione e controllati dal punto di vista igienico-sanitario. Poi i piccioni di Laura Peri, a Montevarchi (Ar). Le anatre sempre di Zivieri, prediligo le femmine. Il problema dell’anatra è la pelle: io faccio trattamenti con bagni caldi di acqua e poi ghiaccio per eliminare il grasso in eccesso. Deve diventare bella croccante da cotta, è parte integrante del piatto, il resto del petto deve essere “giusto”, cotto in padella lionese piano, piano. Un altro grande piatto di selvaggina è la lepre in civet, fatta sotto forma di primo con pappardelle realizzate con sangue di lepre e cioccolato. Facevo anche tortelli di peposo cinghiale».

Cosa pensa della caccia? Il cinghiale prolifera e le sue carni sono preziosi ingredienti di qualità. È una risorsa da sfruttare? Cosa sa della filiera delle carni prelevate dai cacciatori e della possibilità di incrementarne il consumo?

«La caccia nasce per esigenze di sopravvivenza: si selezionavano i capi e si usava tutto della carcassa per fare qualunque cosa. Non mi piace al caccia da trofeo, quella all’elefante, per esempio. Sono attento all’ecosostenibilità, capisco la gestione faunistica e mi sta bene il consumo di carne proveniente da animali selezionati che hanno vissuto in natura. Bisognerebbe semplificare la filiera: quando si uccide in modo etico e sostenibile, quando si effettuano tutti i controlli sulla salubrità delle carni, se si potesse poi vendere direttamente e tutto alla luce del sole, sarebbe l’ideale. E sarebbe anche bello utilizzare tante altre carni. Mi rendo conto che è difficile». (9-continua)