Alla fine dell’Ottocento, diciamo dal 1880 in poi, il disegno del revolver fu oggetto di numerose innovazioni che portarono alle forme ed alle soluzioni che oggi conosciamo: limitandoci agli Stati Uniti, considerati patria indiscussa della tipologia in esame, vediamo comparire le prime “doppie azioni” (peraltro già ben diffuse in Europa…) ed una nuova modalità di caricamento che si basa su un tamburo che si ribalta di lato permettendo di accedere contemporaneamente a tutte le camere.
Fino ad allora i revolver erano dotati o di uno sportellino laterale che consentiva di caricare o scaricare una cartuccia per volta, come sul SAA 73 (ed anche su tantissimi prodotti europei, come Bodeo, Gasser ecc) oppure di un telaio incernierato che permetteva l’accesso contemporaneo alle camere di cartuccia, spesso integrato con l’espulsione “automatica” dei bossoli.
Il primo sistema, personificato dalla Colt, permetteva di avere un telaio monolitico e robusto ma risultava lento nelle operazioni di caricamento e scaricamento, il secondo, che vedeva primeggiare la Smith & Wesson, pur veloce e pratico non poteva permettersi di utilizzare munizioni troppo potenti.
La Iver Johnson, grande fabbrica poco conosciuta al grande pubblico, nel 1879 presentò un modello che riuniva i lati postivi delle due tipologie: in questo revolver il tamburo poteva essere estratto dal telaio chiuso facendolo ruotare in avanti, eliminando in un colpo solo i difetti di Colt e Smith & Wesson.
Ovviamente i grandi nomi dovettero darsi da fare per correre ai ripari e proporre qualcosa di addirittura migliore e, almeno stavolta, per prima arrivò la Colt che propose il suo Modello 1889, con meccanica disegnata da un certo Carl J. Ehbets, in cui il cilindro si ribaltava di lato, ruotando su un giogo: era nato il revolver di tipo “swing out”, tipologia proposta solo sette anni più tardi dalla rivale Smith & Wesson.
In effetti, si dice che il primo revolver “swing out” si debba a due sconosciuti progettisti, William Wetmore e Stephen Wood, ma è difficile stabilirlo con certezza: quello che conta, per il nostro racconto, è la tempistica e la rivalità tra le due case statunitensi.
Il Colt 1889, pur rappresentando una tappa importante nello sviluppo delle armi a rotazione, evidenziò numerosi problemi: dopo pochi anni venne presentato il Mod. 1982, adottato dall’esercito USA, ma anche questo non risultò essere un prodotto ottimale.
Arrivati nel 1909 la Colt decise di rivedere il meccanismo del suo revolver, pur mantenendo più o meno la stessa identica linea: con il Mod. 1909 la rotazione del tamburo passava da antioraria ad oraria e compariva una meccanica basata su un’unica molla a lamina foggiata a V che rimarrà praticamente immutata fino agli anni ’80 del secolo scorso.
Potremmo definire questo complesso meccanismo molto “ottocentesco”, ritrovando in esso elementi presenti in molte rivoltelle europee di fine secolo, come Gasser e Bodeo, ma qui vi sono due differenze sostanziali: la presenza di un blocco inferiore del tamburo elastico e non di pezzo con il grilletto, cosa che complica non di poco la progettazione, e un sistema di leveraggi di sicurezza passiva.
La meccanica è contemporaneamente semplice e complicata: semplice perché è formata, tutto sommato, da pochi pezzi di buone dimensioni, complicata perché le numerose interazioni tra le parti richiedono un aggiustamento di estrema precisione che può essere realizzato perfettamente solo da costosa manodopera specializzata.
Il costo del lavoro, però, non era un problema prima della Grande Guerra ed i revolver Colt ebbero un’enorme diffusione ad onta, per quanto ci riguarda, di un’estetica un po’ discutibile, con le sottili canne a vista e con l’altrettanto esile alberino di espulsione sporgente sotto di essa, un’estetica ben diversa da quella della concorrente S&W che sempre aveva proposto armi con piacevoli raccordi tra le parti e già dal 1907, con la sua Triple Lock, aveva introdotto la carenatura dell’alberino di espulsione.
La Colt continuò con il suo stile, la concorrente sul proprio: nel 1935 la S&W introdusse la sua prima .357 Magnum, quella che poi verrà chiamata Modello 27, con un successo incredibile nonostante un costo quasi proibitivo.
Proprio per cercare di confrontarsi con il successo di quest’ultima, nel 1955 la Colt propose un’arma esteticamente rivoluzionaria, o meglio rivoluzionaria solo nella canna, aspetto che però contribuì a caratterizzare il revolver, denominato Python e camerato appunto per il .357 Magnum.
Nell’eterna lotta con la S&W la Colt segnò un grosso punto a suo favore con questo prodotto, divenuto subito un vero e proprio mito e venduto in grandi quantità ad onta di un prezzo decisamente superiore a quello del diretto concorrente. Ma cosa aveva di così speciale il Python?
Innanzitutto la linea: oggi non possiamo rendercene conto ma proporre un revolver con canna dotata di una vistosa bindella ventilata e di una carenatura dell’espulsore a che arrivava fino alla volata ruppe totalmente gli schemi di allora, sia della Colt che della concorrenza.
Per capirci è come se su un’auto degli anni ’60 una casa automobilistica avesse proposto un moderno posto di guida invece di quello spoglio e triste di allora: altro che rivoluzionario!
La Colt fece proprio questo e con il Python rivoluzionò per sempre l’estetica del revolver.
Ma ovviamente la linea non basta a giustificare quel grande successo e accanto al nuovo stile il revolver della Colt si faceva notare per l’estrema cura con cui era realizzato, cura probabilmente mai più vista in un’arma statunitense.
Assenza di qualsivoglia segno di lavorazione, spigoli trattati alla perfezione, brunitura di un blu profondo, unica nel suo genere, azione fluida e gestibilissima, precisione eccezionale: la Python si meritò ben presto l’appellativo di Rolls Royce dei revolver e nonostante il costo non certo popolare andò a riempire le fondine di migliaia di civili e di decine e decine di dipartimenti di polizia, creandosi una meritata fama sul campo e contendendo alla rivale numerosi contratti.
Ebbe anche la sua gloria nei poligoni di tiro, dove la sua singola azione superba ed il perfetto allineamento tra camera e canna consentivano rosate a dir poco eccezionali; la qualità delle canne del Python, poi, era tale che alcuni customizzatori di grido le adattavano a telai S&W, ottenendo quelle che venivano chiamate scherzosamente “Smolt”.
Il motivo di questa contaminazione era che non tutti amavano la doppia azione in due tempi della meccanica Colt, strutturata in modo che l’unica molla a V si appiattisse quasi del tutto poco prima dello sgancio, richiedendo quindi un secondo piccolo sforzo per sparare.
VERSIONI
La Python nacque con canne da sei pollici, ma ben presto comparirono quelle da quattro e da due e mezzo: come “snub nose” l’arma era un po’ “esagerata”, ma nonostante questo ebbe una discreta diffusione; si potrebbe pensare alla versione da 4” come alla più elegante e funzionale, ma leggendo numerosi resoconti degli anni 60/70 si scopre che molti agenti di polizia usavano Python da 6”, ritenuti tra i migliori strumenti di lavoro disponibili al tempo, a dimostrazione dell’affidabilità della meccanica, considerata da chi l’esamina superficialmente complicata e fragile.
In effetti l’unico problema era che con l’uso intenso si potevano avere piccole usure sulle componenti interne che facevano perdere all’arma il suo perfetto timing e non era poi facile ripristinarlo, a meno di conoscere a fondo il progetto ed essere dotati si apparecchiature e, soprattutto, manualità adeguate, il che non era alla portata di molti armaioli che finivano con il peggiorare le cose.
Nato e progettato per l’acciaio al carbonio, e finito come detto in Colt Royal Blu, il Python è stato proposto anche con finitura nichelata e, verso la fine, realizzato in acciaio inossidabile, sia lasciato al colore naturale che lucidato oltre ogni gusto.
Per un certo periodo sono comparsi anche esemplari con canna da 8”, alcuni dotati di fabbrica di ottiche a lunga focale e destinati alla caccia o al tiro alle silhouette.
LA MECCANICA
La Python utilizzava praticamente la stessa meccanica del Mod.1909, con la differenza di una cresta del cane molto allungata all’indietro che risulta comodissima da armare.
Per il resto, a parte la perfetta finitura dei vari pezzi, si faceva ricorso alla classica molla a V che con un rebbio spinge il cane e con l’altro agisce su un lungo elemento sagomato incernierato all’interno dell’impugnatura.
Questo elemento, con la sua estremità anteriore affinata, va a premere sul braccetto che fa ruotare il tamburo, rendendolo elastico, e tramite questo agisce sul grilletto, forzandolo a tornare in posizione di riposo. Sempre su questo elemento è presente un dente sporgente, sulla sua faccia destra, guardando dal di dietro l’arma, che va a “lavorare” sull’appendice elastica del dente di blocco del tamburo: quando il grilletto arretra questo dente ingrana l’estremità posteriore del citato blocco e lo fa abbassare, liberando così il tamburo; continuando ad arretrare il grilletto il dente perde la presa ed il blocco scatta in alto pronto ad intercettare la prossima tacca di fermo del tamburo.
Dopo lo sparo, quando si rilascia il grilletto, un punto preciso del citato lungo elemento va a contrastare un’apposita profilatura del cane e lo costringe a ritrarsi, in modo che il percussore possa a sua volta rientrare nella sua sede e permettere così la prossima rotazione del tamburo.
Si tratta di movimenti che devono essere perfettamente coordinati e che per funzionare come si deve richiedono interventi manuali: anche solo lucidare una superficie può mandare fuori tempo l’intero meccanismo.
LA FINE
Proprio la necessità di intervenire con calma e perizia durante l’assemblaggio di ogni singolo esemplare ha portato alla cessazione della produzione del Python: non solo troppo costoso da realizzare, ma addirittura impossibile, a causa della carenza di manodopera super specializzata, difficilissima da trovare o formare nella nostra epoca di montaggi industriali.
Il revolver ha visto la sospensione della produzione in più di un’occasione, poi la domanda del mercato lo ha fatto ritornare temporaneamente sugli scaffali, ma quasi sempre con vistosi peggioramenti della qualità, fino alla cessazione totale, all’incirca nel 2004.
Il periodo più nero si è avuto negli anni ‘80, con esemplari piagati da difetti inaccettabili su qualsiasi arma, figurarsi su quella che era un vero e proprio mito: mirini fuori asse, perni sottodimensionati, meccanica fuori tempo o che si incastrava durante l’uso, accoppiamenti della cartella veramente indegni.
Le serie successive, per fortuna, hanno riportato un po’ in alto la qualità, ma i livelli degli “anni d’oro” sono rimasti un sogno.
Oggi è possibile trovare esemplari di Python solo sul mercato dell’usato: alcuni mostreranno i segni di un discreto utilizzo, altri potrebbero essere NIB, ovvero nuovi nella scatola, provenienti magari da collezioni e mai utilizzati.
In ogni caso, a parte situazioni limite, sono ancora ottime armi: quelle della prima categoria potranno essere affidate alle amorevoli cure di un esperto, un vero esperto però, gli altri saranno da usare con parsimonia e conservare con tutta la cura del caso per continuare ad alimentare il mito del Colt Python 357 Magnum.