Si torni laddove questa storia ha inizio, cioè a tanto, tanto tempo fa... Un sogno stava dietro ai frombolieri e a tutti i tiratori del passato remoto dell’uomo: quello di sfidare una delle fondamentali leggi della vita che vuole l’attimo per singolo, l’occasione irripetibile, si ché un errore è sol fatale, sempre e in ogni campo. Tale fatto aveva prova più concreta in tutte quelle pratiche con armi che presupponevano il lancio d’un proietto. Il tempo che in effetti intercorreva tra il tiro e la “ricarica” , quale fosse la tipologia d’arma impiegata, faceva sì che lo scenario balistico che si parava dinnanzi al tiratore/cacciatore fosse fondamentalmente perduto o radicalmente mutato nel momento in cui si poteva riuscire a scagliare un altro colpo, sì che l’occasione che aveva cagionato il tiro –se non colta- si doveva quasi sempre ritener perduta, in maniera esiziale non di rado.
Un uccello che ti viene a tiro e tu non pigli in volo con la pietra scagliata dalla fionda.Un nemico che ti carica spada in mano e tu che manchi il lancio del giavellotto.
Un cervo che ti passa in corsa coi cani dietro e tu che sbagli il getto della freccia. 100/200 metri almeno compie il primo, anzi che tu abbia riarmato. Addosso te lo trovi l’avversario, e tutto si decide a fil di lama. Inghiottito dalla selva l’ungulato ormai, avanti che tu sia in grado d’incoccare ancora. E non c’era niente da fare. Ecco perché furono fitte le volte in cui –ne son certo- questi nostri brothers in arms a spasso per la storia si saranno per certo domandati, implorando quasi: -…un’altra chance, per favore un’altra chance!
Fu con questo sprone che si ebbe il progresso delle armi, con una ricerca che –a dire il vero- per lungo tempo fu assai più ossessionata da una certa volontà di potenza, che non dal risolvere –probabilmente per mancanza di una specifica tecnologia di supporto- il terribile problema della ripetizione velocissima dei colpi dal medesimo corpo arma-operatore.
Il primo utensile su cui si lavorò fu la balestra e suoi logici sviluppi. Queste, benché più potenti e “tecnologiche” (sarebbe più corretto dire: “marchingegnose”), non riuscirono mai tuttavia a scalzare gli archi, perdurando con un periodo di convivenza pressoché sovrapponibile ai vecchi bows. All’arma di Robin Hood infatti, spettavano comunque dei vantaggi capaci di compensare la minor radenza: una maggior cadenza di tiro (guarda caso!) –a dispetto dalla lunghezza di gittata- che in ogni modo li portava non di rado a prevalere, specie su certi terreni ed in determinati scenari bellico-venatori, sulle più potenti balestre già a ripetizione (prego: chiedere ai Francesi nella guerra dei 100 anni e ai loro balestrieri, mercenari genovesi per lo più!) ma infinitamente più grevi e macchinose. Come si diceva tuttavia, furon proprio queste le prime armi a più colpi, due per la precisione, concepite col sistema di archi sovrapposti il cui sgancio poteva esser addirittura simultaneo.
“Attrezzi” non privi d’un loro specifico fascino peculiare, anche d’una certa utilità (specie venatoria: vedi quadri di Lukash Cranach) ma il cui peso, l’eccessiva laboriosità di riarmo una volta tirate le due frecce (cosa che esponeva l’operatore a vere e proprie gragnuole di colpi da parte degli arcieri) -poco da fare- ne limitava l’uso quasi solo alla difesa dagli assedi al fine di trafiggere corazze di fanteria pesante e cavalieri.
Stava tuttavia per volgere al termine la carriera di entrambi gli strumenti, e sarebbe avvenuto –e proprio il caso di dirlo- col botto! Già alla fine del Trecento infatti, certo non in sordina ma sicuramente non senza sguardi scettici di scherno e di sconcerto, apparivano nei campi di battaglia strani attrezzi tuonanti il cui risultato pratico, per lungo tempo, fu per lo più quello di atterrire il nemico (ed in parte pur l’operatore). I primi, portatili, utilizzabili da un singolo, furono i “cannoni maneschi”, seguiti poi via via da un’ “evoluzione della specie” che così come vedrà un certo sviluppo per quel che concernerà precisione e qualità lesive a carico del singolo colpo (grazie anche all’introduzione della rigatura delle canne), tuttavia dovrà attendere bei secoli prima di poter fornire al tiratore quel che forse, più egli sognava oltre che colpire “lungo e duro”. Ripeto: poter doppiare velocemente il colpo, darsi un’altra chance. Ciò avvenne ufficialmente, per la prima volta, nel 1738 –più di due secoli dopo l’invenzione dei pallini da caccia- quando finalmente si potranno avere in mano fucili a due canne capaci di sparare in successione (relativamente) rapida due colpi. E -come si diceva in apertura- già si troverà una sorpresa!
Il fucile di cui si dice infatti, sviluppo degli antichi archibugi monocanna a serpentino (che a loro volta s’erano evoluti in quelli a ruota e poi a pietra; per quel che concerne il sistema d’innesco), non era una “doppietta” come ben si sarebbe potuto supporre, ma un “sovrapposto”, trattandosi in realtà di arma a due canne rotanti over&under (il cui meccanismo doveva ça va sans dire azionarsi manualmente), giacché dotate di un solo acciarino a pietra focaia. Sarà poi dunque la volta dei fucili a due canne sovrapposte fisse e due acciarini (oggetti francamente orribili) sin’ché solo dopo la seconda metà del ‘Settecento –finalmente- vedremo un vero e proprio “parallelo” come si deve e siamo abituati a immaginarcelo. Con quel suo fascino peculiare che ne fa urbi et orbi l’arma da caccia per antonomasia; anche se dunque non è stata la prima, e poi oggi è la meno diffusa in assoluto e comunque non importa…
Ovviamente, prima metà dell’ ‘800, in termini d’armi da fuoco significa soprattutto due cose: avancarica ed acciarino a pietra, il tutto a creare pezzi meccanicamente tutto sommato semplici per non dire grossolani, fatte salve le celeberrime creazioni di Jooseph Manton; che fu capace d’attingere, ai tempi suoi, la vera arte nella creazione di paralleli per la caccia.
Due invenzioni nel campo delle munizioni –frutto d’imprescindibili tecnologie di supporto al weapon making- di lì a poco, avrebbero contribuito in modo definitivo a configurare la “doppietta” siccome pure noi la conosciamo (o in maniera molto simile): le cartucce tout court sulle prime, seguite poi dalla percussione centrale a innesco al fulminato. Fattori che aprivano le porte –rendendola possibile e viceversa- a quella vera e propria rivoluzione chiamata retrocarica.
Era lì che la doppietta, nelle due versioni ancor prodotte a cani esterni e detta hummerless (senza martelli, cioè a cani interni), l’una evoluzione dell’altra, prenderà quelle sue forme deliziose e pur bellissime alle quali ci siamo abituati e su cui abbiamo chissà quante volte meditato, forse sognato…
Fornire un po’ di nomi e date, mi pare a questo punto doveroso.
Inizio della seconda metà dell’800: abbiamo già efficacissime doppiette da caccia a retrocarica, cani esterni solamente a innescare dapprima munizioni a spillo (Lefechaux) e poi via via sempre più moderne, ovvero quelle a percussione centrale. S’afferman quindi codeste come si diceva –le “nostre” cartucce per capirci- e così nel 1875 per opera dei celeberrimi Anson & Deeley (quelli delle batterie “corte”) viene registrato all’ufficio brevetti il primo fucile a retrocarica hammerless, la prima doppietta cioè dell’era moderna, perfettamente funzionante e in grado di scalzare il prototipo dei Needham nato un anno prima, ma non così efficiente e razionale sul piano della meccanica. Si trattava del primo fucile a ripetizione (due colpi) i cui cani “invisibili” si armavano semplicemente quando si apriva il fucile e si abbassavano le canne… E’ l’inizio della gloria tutta anglosassone nel campo della fabbricazione dei paralleli, sì che ancora oggi, pur a fronte di un’eccellente produzione nazionale e pure belga e poi francese; poco da dire, super doppietta nell’immaginario venatorio collettivo –il fucile dei sogni- è “quasi” solo british. E c’è un perché, anzi sono più di uno…
1878: l’inglese Scott, cedendo poi nel ’80 il brevetto a Purdey (dico, PURDEY!) brevetta i primi acciarini a cani interni montati su cartelle laterali smontabili e ispezionabili senza attrezzi particolari. Garanzia di perfezione e dolcezza di scatto senza pari.
1886: Holland & Holland (dico, HOLLAND & HOLLAND) li migliorano –brevettandoli- portandoli così a livello di perfezione assoluta, tanto che di lì in poi solo come HOLLAND o “tipo HOLLAND” verranno definite le batterie lunghe; tutte, anche quelle fabbricate a Vattelapesca purché similari od ispirate a quelle dei magnifici brothers…
Da quella volta in poi nulla o quasi è cambiato nei paralleli e nei loro sistemi di sparo, fatto salvi alcuni particolari tecnici atti a migliorare sempre più la resa balistica delle canne, rendendo al contempo sempre più tetragone le chiusure a dispetto persino dell’introduzione di nuovi materiali atti a produrre fucili sempre più leggeri, “dinamici”…
Le innovazioni quindi, il processo evolutivo, lo si vedrà incentrato su due parti fondamentali dell’arma: le volate dei tubi e le bascule.
E’ qui che entra in scena il V grande nome inglese delle armi al quale, pare, il mondo venatorio debba davvero tanto, specie poi quella sua parte innamorata di doppiette (li ricordo Anson&Deley, Purdey, Westley Richards, Holland&Holland e…): W. W. Greener. Suo infatti il merito d’aver perfezionato a livelli estremi le strozzature, tanto che c’è chi gliene attribuisce sic et simpliciter l’invenzione (anche se non è vero); suo certamente quello d’aver dato vita a quella famosa triplice chiusura (triplice Greener). La quale, assieme alla duplice Purdey (che sancì in maniera perentoria l’affermazione del sistema top lever di apertura; quello a chiavetta per capirci) e alla triplice Westley Richards (a “testa di bambola”) e loro infinite varianti a tutt’oggi rappresentano ancora “Le Chiusure” per doppiette punto e basta. Le specie cui è preclusa evoluzione poiché perfette e dunque imperfettibili. Di lì in poi la storia della doppietta si fissa e diviene leggenda. Ejectors (cioè estrattori automatici), strozzatori interni, monogrillo e leghe leggere verranno a creare upgrades e “variazioni sul tema” che in alcun modo muteranno né la forma e men che meno la sostanza del fucile a canne parallele: il quale nonostante l’agguerrita concorrenza di sovrapposti e semiauto, continuerà all’infinito a rappresentare nell’immaginario quel che è al di là del divenire: un classico.
C’è una famiglia di doppiette francesi affatto particolari: le Darne. Presentano infatti una bascula che tale non è. Le canne sono fisse, quel che scorre invece, avanti indietro, su binari, è il blocco seni-chiusure agendo su una leva che funge da chiave di chiusura e sistema d’armamento dei cani interni. Il tutto a dare vita ad armi originalissime, pregevoli sul lato estetico e tecnico, non di meno caratterizzate da leggerezza estrema e istintività di puntamento. Sono oggetto di culto e collezione, specie tra i beccacciai…
Le batterie dei cani esterni presentavano (e presentano ancora) quattro tipi fondamentali di acciarini: 1) a piastra e molla avanti; 2) a piastra e molla indietro; 3) piastra avanti e molla indietro; 4) mezza piastra e molla indietro, pure detto “a rosetta”.