Ho qui tra le mani il dizionario Inglese-Italiano/Italiano-Inglese Borrelli-Chinol-Frank, edito dall’Istituto Geografico De Agostini. Vado alla lettera V, scorro le righe et voilà! Eccomi alla voce che c’interessa: Varmint/Varment. La traduzione è secca e non lascia spazio ad equivoci: “animale nocivo (specificatamente la volpe nella caccia alla volpe)”. Oh porca miseria – penso ‒ ma guarda un po’ chi si rivede nell’epoca del buonismo demenziale e delle melensaggini politically correct; la cara, vecchia, giusta definizione di nocivo! Corro come un pazzo a pigliare il Devoto-Oli e alla voce Nocivo che ti leggo? “Che procura un danno di varia entità, visibile o nascosto, a carico di un organismo o di una condizione”.
Orbene, noi siamo cacciatori, ovvero uomini saggi che vivono ed amano la natura essendone parte integrante. Gente insomma che sa come gli uomini, le piante e gli animali (assieme alle rocce e alle acque) costituiscano un unicum inscindibile. In tale contesto è ovvio che qualsiasi intervento squilibrato è di nocumento all’insieme, cioè nocivo (ad esempio l’inquinamento e il bracconaggio). Almeno quanto il comportamento – o l’incidenza massiccia di alcune specie particolarmente vocate alla predazione (ma non solo) – diviene altrettale in particolari condizioni. Fu per questo che alcune di queste, tra le opportuniste – che dalle mutate condizioni di vita della razza umana poterono trarre vantaggi “innaturali” – vennero dette (e in tutte le lingue) per l’appunto nocive. E parlo di volpi, mustelidi, gatti e cani rinselvatichiti, i corvidi tutti. Ovvio perciò che contro di esse si sia sempre fatta una caccia spietata, volta non tanto a distruggerle (hanno tutte – fatti salvi i domestici non più tali- una precisa funzione biologica) quanto a contenerne il numero entro parametri atti a garantire l’efficienza di un ecosistema senza stravolgerlo. Checché ne possano dire infatti, i pazzi che abitano in città, hanno la macchina, il riscaldamento centralizzato, due cellulari (per il marito e per l’amante) ma… una volta al mille vanno in campagna ad abbracciare le piante, è compito dell’uomo – specie quello moderno dell’era industriale- conservare i capitali faunistici attraverso una gestione oculata che preveda anche l’uso della carabina per la conservazione delle singole specie.
È per questo che è nato il controllo selettivo degli ungulati; ed è per la medesima ragione che –piaccia o no – prima o poi toccherà farlo anche in tutte le aree protette del mondo; per dare una mano alla natura a conservare la sua solenne armonia. È dunque tempo la si smetta con le ipocrisie, la si pianti con le mezze robe, e si ritorni a chiamare le cose con il loro nome al fine di conoscerle un po’ meglio e dunque gestirle. Certo infatti che la faina e la donnola sono predatori, ma diventano subitaneamente nocivi quando attaccano pollai e mietono stragi di selvaggina prodotta a costi assi elevati. Certo che la cornacchia grigia, la taccola e la gazza sono preziosi spazzini della natura, pur tuttavia lo spropositato incremento che hanno subito in quest’ultimi anni – a scapito di tutte le altre specie selvatiche che attaccano sistematicamente- le ha rese tutte invariabilmente nocive. Al pari di quelle volpi che ormai (assieme a gatti e cani randagi) son talmente tante da vanificare qualsiasi tentativo di ripopolamento si voglia mettere in atto (c’è persino chi dice che durante i lanci le si senta ridere dai fossi leccandosi i baffi!). Al pari di quelle nutrie che distruggono interi ambienti fluviali eccetera eccetera… Tutto ciò dimostra come i mezzi attuali di controllo (decisamente soft e buonisti) siano assolutamente inefficaci, preludendo a un tempo in cui, senza tanti problemi e piagnistei, si potrà tornare a dar efficacemente la caccia anche a questi animali chiamandoli col loro nome – nocivi! – ed usando contro di essi (e quelli che in maniera similare verranno a comportarsi) quegli strumenti che pressoché ovunque e da sempre sono il sistema più efficace per contrastarne l’eccessiva incidenza sull’ambiente: le carabine, munite di ottica, opportunamente camerate in tutti quei calibri appartenenti alla classe varmint e similari.
Questi non nacquero solamente in America, ma lì vennero definiti tali ed ebbero enormi sviluppo e diffusione, a causa dei pesanti danni che svariate specie di predatori, assai elusive e difficilmente accostabili, avevano ed hanno modo di produrre sulle attività umane e sulle specie di animali sia selvatici che domestici d’interesse. In termini generici possiamo dire che trattasi fondamentalmente di piccoli calibri, dalla buona potenza, caratterizzati tutti da una forte radenza e dunque efficacia sino alle massime distanze su selvatici di mole adeguata. Ma andiamo a conoscerli un po’ più da vicino…
Vi son tuttora molti luoghi – ovvero Nazioni! – in cui l’uomo con la carabina, che di giorno ma soprattutto di notte, con prudenza ed efficacia si produceva (e si produce ancora…) in entusiasmanti attese culminanti nell’abbattimento di specie selvatiche troppo presenti e dunque dannose, veniva (e viene) guardato con un occhio benevolo dalla comunità; …quasi fosse un benefattore. Ed infatti lo è! Suoi compagni, nelle lunghe attese solitarie, son sempre stati e continuano ad essere fucili a canna rigata, muniti di ottiche, camerati in tutti quei calibri della classe .22 che per loro caratteristiche intrinseche ben si prestavano (si prestano) ad abbattere pulitamente quegli animali che per varie ragioni possono giungere ad avere sul territorio un’incidenza tale da caratterizzarli come nocivi.
Si parte – ovviamente – da quei misteriosamente vitatissimi in Italia a fini venatori .22 a percussione periferica, che ebbero loro progenitore nel (geniale) .22 Smith&Wesson, perfezionato nel 1864 nel mitico .22 Short e tuttora adoperato quale uno dei calibri principe per il tiro a segno ed il barattoling (la corretta dicitura sarebbe plinking), assieme a tutte le cartucce da esso derivate: .22 Long e soprattutto .22 Long Rifle nelle sue due varianti standard e high velocity o super speed, in grado di armare palle da ogni tipo e granatura sino ai 40 grs. Trattasi dunque di munizioni capaci di realizzare rosate assai concentrate, con una radenza ed efficacia assoluta su animali idonei, spendibile sino a 150 metri con poco o nullo rumore e rinculi mitissimi, sì da renderle perfette per la cameratura di carabine semiautomatiche con cui insidiare, indisturbati, branchi interi specie di volatili. Dico solo che tali categorie di armi e munizioni, in Francia vennero battezzate – giusto per capirci a cosa potrebbero e dovrebbero servire – corbeaux. Vuol dire corvi: capito il concetto?!
Da questi giungiamo dunque ai varmint propriamente detti. In principio, in una Frontiera in cui operavano mandriani, allevatori e trappers, la cartuccia che oltre oceano venne messa a punto per il contenimento di rapaci, mustelidi, volpi etc. fu quella .22 Hornet derivata dal vecchio bossolo della .22 Winchester Center Fire a polvere nera; similare, ma non sovrapponibile in quanto a prestazioni al 5,6x35R Vierling – calibro tedesco prettamente da nocivi- poiché in grado, quest’ultimo, di sviluppare maggiori velocità tirando altresì palle di maggior importanza. Dal 1930 camerò numerosissime carabinette sia negli Usa che nel Vecchio Continente, servendo egregiamente rural men e guardiacaccia professionisti i quali, senza sciocchi limiti di tempi ed orari, dovevano difendere i propri allevamenti e la selvaggina di pregio dagli attacchi di tutti i predatori in soprannumero, dimostrandosi efficacissima – con proiettile da 45 grs. hollow point- su animali di mole analoga o di poco superiore alla volpe sino a 100 metri. La sua storia doveva però finire attorno alla seconda metà degli anni ’50, quando grazie alle ricerche messe in atto in casa Remington per la messa a punto di una munizione militare (sfoceranno nella magnifica .223R o 5,56 NATO), prese vita lo splendido e razionale .222 Remington. Il non plus ultra dei calibri da varminting. In breve questa munizione divenne signora incontrastata delle .22 a percussione centrale la cui destinazione d’uso fosse la caccia ai nocivi. Portò al rapido declino di altre (esuberanti e dunque costose e non del tutto adeguate) che nel frattempo erano nate, quali la .218 Bee e la .219 Zipper, limitando altresì al loro adeguato utilizzo calibri ben più potenti come il 30/06S ed il .308 Winchester.
È in effetti proprio la .222 Remington munizione specifica per la caccia ai nocivi di piccola o media mole dalle lunghe distanze. Pur non essendo infatti molto veloce – raggiunge i 975 m/s alla bocca con palle da 50 grani, spuntando poco di più con la carica domestica – si dimostra efficientissima su volpi, mustelidi e grossi roditori (potrebbero essere istrici e nutrie) sino ai 300 metri almeno; producendo sempre rosate strabilianti condite da scarsissimo rinculo. È ovvio che sui corvidi è assolutamente eccessiva (ma per questi ci sarebbe, come dicevo, il perfetto .22 Long Rifle), almeno quanto su animali di mole superiore e dunque più coriacei, insufficiente. Perciò in America, pressoché nel medesimo periodo (1955), nacque un’altra eccellente munizione, l’unica 6 mm. della classe Varmint: il .243 Winchester. Negli Usa divenne assai popolare, con palla da 80 grani, per il tiro a lunga distanza soprattutto su lupi e coyotes. Oggi, da noi, è calibro principe con palle di varia granatura per la selezione al capriolo. Ma questa è un’altra storia. Anche se ho come l’impressione che sia la stessa cui manca un importante, fondamentale capitolo. Questo.