Long Range Italia a.s.d

Il nuovo assetto normativo venutosi a delineare a seguito dell’abrogazione del Catalogo Nazionale delle armi comuni da sparo e della successiva entrata in vigore del D.L. n. 95 del 2012, lo abbiamo già ampiamente illustrato nei nostri precedenti interventi. Vogliamo ora tornare sull’argomento per fare un po’ il riepilogo della vicenda ma, soprattutto, per fare il punto su quali siano le attuali classificazioni che, in base alla normativa comunitaria, il Banco Nazionale di prova è chiamato ad attribuire alle armi sottoposte al suo esame.

Partiamo allora col ricapitolare quanto accaduto nel recente passato.

Il sistema disegnato dalla legge 110 del 1975 prevede che possano essere immesse sul nostro mercato solo armi da fuoco e da sparo che siano state classificate come “comuni”.

Per poter attribuire tale qualifica, la legge richiamata aveva stabilito un complesso procedimento amministrativo, che prevedeva l’iscrizione del prototipo dell’arma in un apposito elenco, denominato “Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo”, con attribuzione di uno specifico numero di iscrizione che doveva essere stampigliato su tutte le armi conformi a quel modello destinate ad essere immesse sul mercato italiano.

Per poter ottenere quel numero di iscrizione, il fabbricante o l’importatore nazionale (fosse esso un commerciante o un privato cittadino) doveva presentare un’istanza ad un ufficio appositamente istituito presso il Ministero dell’Interno. Questo ufficio, per poter classificare l’arma doveva richiedere necessariamente il parere (non vincolante) ad un consesso di esperti costituito dallo stesso Ministro dell’Interno, denominato “Commissione Consultiva Centrale per il Controllo delle Armi”, il quale era chiamato ad esaminare l’istanza o il prototipo stesso dell’arma ed a fornire un parere circa la sua natura di arma comune. Per far questo, la Commissione (ma in realtà era l’ufficio ministeriale a farlo) assegnava l’arma da esaminare ad un suo membro, che in qualità di relatore aveva il compito di studiare la scheda tecnica dell’arma fornita dal richiedente a corredo dell’istanza; se non riteneva sufficiente quanto riportato nella predetta scheda, lo stesso relatore poteva richiedere l’esibizione del prototipo dell’arma. Il prototipo poteva poi essere usato solo per un esame visivo delle sue parti e componenti, ma poteva anche essere utilizzato per delle prove a fuoco o comparazioni tecniche, ad esempio con la sua versione militare in “full auto”. 

Per poter eseguire queste prove, la Commissione si avvaleva della collaborazione del Polo Mantenimento Armamento Leggero (PMAL), struttura militare di assoluta eccellenza, dotata della raccolta tecnica di armi più ricca d’Italia. Con l’occasione, ricordiamo a tutti gli appassionati di armi che la Raccolta Tecnica del PMAL di Terni è oggi una fondazione museale che apre le proprie sale al pubblico nei giorni di chiusura dello stabilimento militare, per cui è da mettere in programma una gita nella città umbra per visitare un museo che non ha pari in Europa.

Terminati gli accertamenti ritenuti necessari, il relatore ne riferiva gli esiti alla Commissione riunita, enunciando il proprio giudizio circa la natura di arma comune o meno del prototipo esaminato; la Commissione, con una votazione ad alzata di mano, esprimeva il suo parere su quanto riferito dal relatore.

Una volta ottenuto il parere della Commissione, l’ufficio del Catalogo predisponeva il Decreto di catalogazione, che veniva poi firmato dal Ministro (che però ha sempre delegato un sottosegretario). Il predetto atto veniva, quindi, notificato all’interessato, che da quel momento poteva iniziare la produzione o l’importazione dell’arma, che doveva essere immessa sul mercato con impresso sopra il numero indicato nel decreto di catalogazione.

Il Decreto, oltre al numero di iscrizione nel Catalogo, poteva contenere delle note con specifiche indicazioni circa le caratteristiche tecniche dell’arma o la sua qualifica di arma destinata all’uso sportivo; da questa procedura venivano esclusi i fucili da caccia a canna liscia e le armi ad avancarica.

Tutto l’iter burocratico sopra descritto richiedeva tempi abbastanza lunghi, che potevano andare da un minimo di 5/6 mesi, per i casi più semplici, ad oltre 12 mesi per quelli più controversi, il tutto alla faccia delle modifiche apportate dalla legge 69 del 2009 alla legge 241 del 1990, che prevede tempi categorici di durata di tutti i procedimenti amministrativi di gran lunga inferiori.

Questo sistema è stato in vigore in Italia per oltre tre decenni, dal settembre 1979, quando si riunì per la prima volta la C.C.C.C.A., fino al 1° gennaio del 2012, data a partire dalla quale, per effetto della c.d. “Legge di stabilità 2012”, l’articolo 7 della Legge 110/75 è stato abrogato.

La catalogazione delle armi comuni è stata da sempre criticata dagli addetti del settore, non tanto per le, a volte stravaganti, decisioni assunte, quanto proprio per le lungaggini burocratiche. I lunghi tempi necessari per ottenere il sospirato decreto costituivano un serio ostacolo alla competitività delle aziende nazionali ed un disagio per gli importatori. Infatti, se su un determinato mercato si impone una nuova moda, tutti i produttori si affrettano a mettere nel proprio catalogo commerciale uno o più prodotti in grado di andare a soddisfare la nuova domanda; ma mentre qualsiasi produttore mondiale poteva andare in quel settore di mercato in pochi mesi, il tempo strettamente necessario per progettare e mettere in produzione il nuovo modello, al produttore italiano occorrevano tempi molto più lunghi, necessari per richiedere ed avere la catalogazione dell’arma.

Lo stesso problema lo aveva anche chi voleva importare nuove armi, che prima di farle arrivare in dogana doveva attendere la notifica del decreto di iscrizione nel catalogo (non era facile spiegare al produttore estero perché una volta stipulato il contratto, questi dovesse attendere tutto quel tempo prima di poter spedire le armi in Italia). 

Ora tutto questo fa parte dei ricordi del passato, di un mondo scomparso, con la sua giurassica burocrazia, del quale potremo raccontare la storia ai nostri nipoti.

Con l’art. 23 del D.L. 95/2012, il Governo ha sottratto al Ministero dell’Interno l’onere di attribuire la qualifica di arma comune da sparo ai nuovi modelli destinati ad essere immessi sul mercato italiano, affidandolo al Banco Nazionale di prova.

Questa scelta, come tutte le cose, ha lati positivi ed altri ancora un po’ ombrosi, ma anche di questo vi abbiamo già ampiamente detto.

Quello che vogliamo oggi illustrarvi nel dettaglio, sono invece le varie categorie alle quali il Banco dovrà fare riferimento nell’attribuire la qualifica di arma comune.

Come espressamente richiamato dal citato comma 12 octies dell’art. 23 del D.L. 95, il BNP dovrà fare riferimento alle categorie indicate dall’Allegato 1 della Direttiva 477/91/Ce.

Queste categorie sono 4 (A, B, C e D) e nell’assetto normativo delineato dalla Direttiva comunitaria, esse pongono le armi in una scale decrescente di pericolosità; di conseguenza, le restrizioni previste ai fini dell’acquisto, detenzione e porto, variano in funzione della classe di appartenenza.

Ed allora, in Europa, come oggi anche in Italia, individuiamo nelle armi della categoria A quelle proibite, che mai potranno essere immesse sul mercato civile. In Europa, nella categoria B troviamo armi per il cui acquisto, detenzione e porto occorre un’apposita licenza rilasciata dalle autorità competenti; la C, invece, include armi di minore pericolosità, che chiunque può acquistare e detenere, salvo l’obbligo di denunciarne la detenzione; nella D, infine, troviamo armi dalla limitatissima pericolosità, il cui acquisto non è soggetto a particolari limitazioni. Si tratta, ovviamente, di un quadro generale disegnato dal legislatore comunitario, che poi ogni Stato membro ha adattato alla propria realtà.

Da noi, invece, le norme che disciplinano le modalità di acquisto, detenzione e porto delle armi comuni non sono state modificate e, quindi, rimangono legate ad una logica completamente avulsa dal pragmatismo europeo. Basti pensare che nel nostro ordinamento sono considerate armi per il cui acquisto occorre un titolo e che bisogna poi denunciare, le armi da “Punta e taglio” (meglio note come armi bianche), che, invece, nella citata direttiva non sono neanche menzionate, così come il nostro le armi antiche, che solo il nostro ordinamento continua a sottoporre alle stesse limitazioni delle armi moderne (ma poi, per assurdo, le loro repliche moderne sono di libera vendita). Altra profonda differenza la riscontriamo nella definizione di arma da caccia: per l’Europa sono tali i fucili definiti nella categoria C, mentre da noi vige ancora una classificazione non legata alle caratteristiche tecniche dell’arma, ma solo al suo calibro.

Stando così le cose, non è chiaro per quale motivo si sia voluta adottare la classificazione europea; se ad essa non si attribuisce alcun valore, ma resta solo una nuda sigla con la quale definire un’arma, tanto valeva continuare ad usare le classi elencate nel D.M. che stabiliva i criteri di catalogazione (che, per giunta, nessuno ha abrogato).

Utilizzare le più articolate e complesse categorie della Direttiva europea senza alcuno scopo ulteriore è stato solo un inutile aggravio burocratico; sarebbe bastato dire arma “comune” ed “arma sportiva” per poterla poi immettere sul mercato. A noi Italiani, sapere che l’arma è una B3, piuttosto che una C4, non serve a nulla, a meno che non si voglia giocare a battaglia navale.

Comunque, ormai è così, e non ci resta che abituarci al nuovo modo di definire le armi comuni.

Ed allora, vi riportiamo di seguito quelle che sono le nuove categorie con cui dovremo abituarci a convivere, sapendo che, comunque, ai fini pratici, nulla è cambiato.

Categoria A – “armi da fuoco proibite”

1. Dispositivi di lancio ed ordigni per uso militare ad effetto esplosivo
2. Le armi da fuoco automatiche
3. Le armi da fuoco camuffate sotto forma di altro oggetto
4. Le munizioni a pallottole perforanti, esplosive o incendiarie, nonché i proiettili per dette munizioni
5. Le munizioni per pistole e rivoltelle dotate di proiettili ad espansione nonché tali proiettili, salvo quelle destinate alle armi da caccia o da tiro al bersaglio per le persone abilitate ad usare tali armi.

Categoria B – “armi da fuoco soggette ad autorizzazione”

1. Le armi da fuoco corte semiautomatiche o a ripetizione
2. Le armi da fuoco corte a colpo singolo, a percussione centrale
3. Le armi da fuoco corte, a colpo singolo, a percussione nucleare, di lunghezza totale inferiore a 28 cm
4. Le armi da fuoco lunghe semiautomatiche a serbatoio e camera idonei a contenere più di tre cartucce
5. Le armi da fuoco lunghe semiautomatiche con serbatoio e camera contenenti al massimo tre cartucce, il cui
caricatore non è fissato o (27) per le quali non si garantisce che non possano essere trasformate, mediante
strumenti manuali, in armi con serbatoio e camera idonei a contenere più di tre cartucce
6. Le armi da fuoco lunghe a ripetizione e semiautomatiche a canna liscia, la cui canna non supera i 60 cm
7. Le armi da fuoco per uso civile semiautomatiche somiglianti ad un’arma da fuoco automatica.

Categoria C – “armi da fuoco soggette a dichiarazione”

1. Le armi da fuoco lunghe a ripetizione diverse da quelle di cui al punto B 6
2. Le armi da fuoco lunghe a colpo singolo dotate di canna rigata
3. Le armi da fuoco lunghe semiautomatiche diverse da quelle di cui alla categoria B, punti 4-7
4. Le armi da fuoco corte, a colpo singolo, a percussione anulare, di lunghezza totale superiore o uguale a 28 cm

Categoria D – “altre armi da fuoco”

Le armi da fuoco lunghe a colpo singolo a canna liscia.
B. Le parti essenziali delle suddette armi da fuoco:
il meccanismo di chiusura, la camera e la canna delle armi da fuoco, in quanto oggetti distinti, rientrano nella categoria in cui è stata classificata l’arma da fuoco di cui fanno o sono destinati a fare parte.
III. Ai sensi del presente allegato, non sono inclusi nella definizione di armi da fuoco gli oggetti che, seppure conformi alla definizione:
a) sono stati resi definitivamente inutilizzabili mediante una disattivazione tale da rendere tutte le parti essenziali dell’arma da fuoco definitivamente inservibili e impossibili da asportare, sostituire o modificare ai fini di un’eventuale riattivazione;
b) sono concepiti per allarme, segnalazione, salvataggio, macellazione, pesca all’arpione oppure sono destinati a impieghi industriali e tecnici, purché possano venire utilizzati unicamente per tali scopi specifici;
c) sono armi antiche o loro riproduzioni, a condizione che non siano comprese nelle categorie precedenti e che siano soggette alla legislazione nazionale.