Il fascino della caccia con i piccoli calibri

Quando racconto i miei trascorsi di caccia, non lo faccio certo per smania di protagonismo né tantomeno con la presunzione di rappresentare anche il pensiero degli altri appassionati come me. Lo spirito che mi anima è quello di raccontare storie di caccia vissuta, convinto che le mie esperienze siano anche quelle di tanti altri seguaci di Diana. Magari le tradizioni venatorie che hanno determinato quanto cito nei modesti articoli, potranno essere specifiche, ma compagni di caccia, ambiente, cane, fucile, convivialità ecc. sono sicuro che sono un denominatore comune trasversale tra noi cacciatori e questo, mi dà la forza necessaria ed il giusto orgoglio, per portare avanti la difesa a oltranza di una categoria la nostra, vilipesa oltre misura da quelli che sappiamo essere i nostri principali denigratori. Quindi non solo noi cacciatori siamo profondamente diversi da come tentano di dipingerci ma addirittura, siamo portatori di pregi sociali e valori morali di assoluto livello sociale.

Il sovrapposto turco della Yildiz, immortalato con una fantastica starna abbattuta in azienda. Abbattere un selvatico con un piccolo calibro è sempre una bellissima soddisfazione.

Tutti noi, e per noi intendo nella condizione di cacciatori, percorriamo esperienze di vita che poi inevitabilmente ci inducono alcune volte e nostro malgrado a cambiare abitudini di caccia. Faccio un esempio banale, sempre frutto di esperienze vissute da amici comuni. Le condizioni fisiche di questi due amici (protesi all’anca ecc.), non gli permettevano di fare caccia vagante con i cani e quindi inevitabilmente il loro interesse era rivolto alla migratoria, prevalentemente esercitata da appostamento fisso in capanno. Queste due persone, amici da una vita, erano un corpo e un’anima, tanto che le rispettive mogli le chiamavano ironicamente “coppia di fatto”. Ovviamente alla base c’era come sempre una solida amicizia, fortificata nel tempo e coltivata come un fiore prezioso, perché la vera amicizia è così, non si mantiene tanto per, ma va’ sempre vitalizzata con comportamenti che fanno bene al cuore e all’anima e questo non solo durante la stagione venatoria. Alla prematura morte di uno dei due per un improvviso infarto, l’altro amico è entrato in una profonda crisi depressiva, dapprima isolandosi in famiglia e poi, rifiutando qualsiasi forma di socializzazione esterna. La sua vita è cambiata radicalmente, anche se con l’aiuto dei famigliari è riuscito a venirne fuori.

Altro elemento potrebbe essere un trasferimento per esigenze lavorative, come è capitato a me. In questo caso, e se possibile, si creano nuove amicizie e quindi diversi scenari di caccia e metodi correlati. Per non parlare della morte di un cane ma anche di sopraggiunti impegni famigliari magari associati a difficoltà economiche perché ebbene si, la caccia è pure onerosa e non tutti se lo possono permettere oggi più che mai.

Anche lo scemare di un interesse venatorio (a me è capitato con la caccia al cinghiale praticata per oltre 30 anni come canettiere e alle quale dedicavo solo un fine settimana e non sempre) vuoi per la poca voglia di portare in spalla gente poco collaborativa, vuoi per la presenza in squadra di elementi poco affidabili nel tiro (mi riferisco alla sicurezza e non certamente alle padelle che fanno parte del gioco ecc. ), ho smesso di praticarla per passare definitivamente con l’ausilio dei miei amati springer, alla caccia vagante soprattutto a lepre e fagiano.

L’interesse verso i calibri da caccia minori, ma solo per dimensioni

In questa che io chiamo evoluzione personale e naturale come uomo/cacciatore, a me e vedo anche a tanti altri, si associa l’interesse verso i piccoli calibri come il 20 ma anche e perché no il 410 che io chiamo il “gingillino “.

Il Benelli calibro 28 del nostro amico Luciano Guglielmi, in una giornata alla ricerca della regina sui monti del Lazio.

Questo perché il peso ridotto da portare in spalla anche per ore per chi pratica la caccia vagante, fa la differenza senza peraltro perdere di efficacia sull’animale sempre che al calibro e al tipo di selvaggina insidiata, si è capaci di associare una cartuccia adeguata nella grammatura e nella tipologia di polvere in base alla stagione e al tempo umido o meno. Molti pensano, sbagliando, che con una maggiore grammatura di piombo aumentano le probabilità di abbattimento. Così non è, perché è sempre l’equilibrio tra i vari componenti che produce i risultati migliori ed io, una volta individuata la cartuccia giusta, difficilmente me ne privo.

Sul caricamento in genere andrebbe fatta una riflessione logica, senza tenere conto degli aspetti romantici che esso rappresenta. Personalmente non sono mai riuscito a superare e in tanti casi ad eguagliare le prestazioni di un’ottima cartuccia diciamo “industriale” e questo perché le tecniche produttive sono perfette e le prove al banco che precedono la produzione, sono frutto di misurazioni molto attente perché al pari di un qualsiasi prodotto, il brand tende a distinguersi nel panorama della concorrenza con un valore aggiunto che poi dovrebbe trovare il riscontro di chi poi acquista.

Tornando alla scelta dei piccoli calibri, semmai il tiro diventa più difficile e le padelle aumentano, ma il cacciatore veterano ne ha viste talmente tante che le schioppettate non andate a segno, diventano quasi una liberazione. La cattura della preda perde sempre più interesse a favore di altri aspetti i quali, con la vecchiaia che avanza, prevalgono sul resto delle emozioni venatorie. Mi riferisco al piacere di sentirsi ancora validi sotto l’aspetto fisico e psichico, di gioire della compagnia degli amici di sempre, di poter evadere anche solo per mezza giornata, fuggendo dalle grinfie della nonna tigre che nel frattempo è indaffarata con i numerosi nipotini ma che ti aspetta al varco con strilli da megera solo perché ai tuoi stivali e scarponi, sono rimasti attaccati pezzi di fango calpestato nella maggese di campagna oppure perché in un attimo, sei capace di mettere in disordine, tutto ciò che lei diligentemente e faticosamente aveva sistemato in mattinata. Ovviamente scherzo e guai a chi ci tocca queste compagne splendide e comprensive, ma un fondo di verità c’è sempre come quando parla uno che ha alzato il gomito (in vino veritas).

Finché c’è la caccia, c’è speranza...

Il vero dramma è quando gli eventi ti impediranno del tutto di poter andare a caccia. In quel momento non riesci a fartene una ragione e rifiuti ogni altra alternativa sapendo che nulla potrà sostituire le emozioni di una vita. Se come mio nonno con mio padre, mio padre con me ed ora io con Alessandro, possiamo contare nel ricambio generazionale, allora la malinconia viene mitigata dai racconti. Aspetti con impazienza tuo figlio al suo ritorno da caccia come fosse il Messia. Lo tempesti di domande per avere da lui anche il minimo dettaglio della giornata. Chiudi gli occhi e ti sembra di rivivere e di assaporare le sue medesime emozioni. Non è la stessa cosa ma sempre meglio che giocare a briscola e tresette sotto il circolo di casa o di rincoglionirsi a fare panciate di TV spazzatura.

Aspetti e contribuisci festoso alle cene organizzate da tuo figlio insieme ai suoi amici cacciatori. Sei in prima fila nel raccontare le tue esperienze passate quasi a dimostrare soprattutto a te stesso, che oggi non puoi ma che a suo tempo, sei stato un protagonista e che la caccia in ogni sua forma anche quella meno conosciuta e praticata, per te non aveva alcun segreto. Con la complicità dell’allegra comitiva, ne approfitti per fare qualche stravizio nel mangiare derogando dalle regole rigide imposte dalla solita megera, questa volta infermiera fiera del suo ruolo di scrupolosa vigilante delle tue diverse patologie. Pagherai a caro prezzo questi tuoi stravizi, ma non importa; la vita è una e la felicità di stare insieme agli amici vecchi e nuovi non ha prezzo ma solo un “valore”. Speri tanto che la prossima occasione ti trovi ancora arzillo da potervi partecipare e nel frattempo tempesti il figliolo con le solite domande: ma quando organizzi con gli amici, cosa cucinerete, posso essere utile in qualcosa e così via.

La verità è che un vero cacciatore rimane tale fino all’ultimo. Se potessimo, ci faremmo tumulare con il nostro amato fucile ovviamente cosa non possibile per norme legali.

Una splendida mattinata al passo, coronata da un discreto ma emozionante, come sempre, carniere di colombacci e tordi abbattuti in calibro 28 dal nostro amico Juri.

Nel suo inconscio, il vecchio cacciatore spera che i suoi amati schioppi non diventino semplici cimeli, ma armi delle quali andare fieri come il migliore dei lasciti perché i tuoi fucili ma anche il resto degli accessori, non rappresentano un prezzo bensì un ricordo affettivo il che la dice lunga sulla nostra passione.

Io, ad esempio, almeno una volta l’anno magari in ZAC o riserva, porto la doppietta calibro 16 che fu di mio padre. In queste occasioni mi sembra di averlo al mio fianco lui che era un mancino esperto stoccatore, forgiato venatoriamente inseguendo pernici sempre pronte all’involo in terreni impervi come pochi. Vi metterete a ridere se dicessi che in caso di mancato incontro e relativo tiro, prima di riporlo in fodero, tiro sempre in aria due fucilate come si fa con le botte dei fuochi di artificio che annunciano la festa paesana. Lo considero un gesto di estremo amore verso chi mi ha trasmesso questa meravigliosa e unica passione che è la CACCIA.

Una doppietta che all’oscuro di mio padre Antonio (in servizio presso le miniere di piombo e zinco del Sulcis Iglesiente decorato con Medaglia di Bronzo al Valor Civile ed io giovane ancora non patentato) spezzavo in due e nascosta sotto il pesante pastrano, con le tasche piene di carrube che masticavo come integratori naturali, mi recavo attraverso una galleria mineraria, dall’altra parte della montagna dove cacciavo tordi e merli a profusione con il solo limite del numero di cartucce anch’esse acquistate di straforo o avute in regalo da un amico più grande (Francolino Sabiu). Fino a quando, arrivò l’inevitabile soffiata (la gente di paese non si fa mai gli affari suoi), con relativo rimbrotto e punizione, comminata tra un mezzo sorriso di soddisfazione da parte di mio padre, il quale intendeva solo farmi capire il rischio, ma che era nel contempo orgoglioso nel veder fiorire e crescere una passione che lui stesso aveva nel sangue e che vedeva in me la staffetta del padre in figlio. Anche su questo orgogliosi di essere cacciatori. Il resto è mancia.

 “La felicità è un percorso non una destinazione “

( Madre Tersa di Calcutta )

Viva la caccia e viva i cacciatori!