Noi la chiamiamo polvere nera, ma va ricordato che per secoli è stata, semplicemente, la polvere da sparo, l’unica disponibile. Il nome di polvere nera è stato dato dopo lo sviluppo delle polveri cosiddette senza fumo; ma per tutti i secoli precedenti, si conosceva un solo prodotto, valido per i cannoni, gli archibugi e i lavori minerari, che era noto semplicemente come “polvere da sparo”.
La polvere doveva essere introdotta nella canna delle armi da fuoco. In campo militare, c’è da pensare che non vi fossero problemi. Si caricava a occhio, prendendo la polvere da un sacchetto. Ancora del 1642, un manoscritto di Antonio Petrini, che si descrive come “Archibusiero e Armaiolo”, indica il modo empirico del caricare “alla refusa”. Scrive il Petrini: “In più maniere si caricano gli Archibusi, ma due sono le principali. Una si chiama carricare alla refusa, et l’altra a peso, o’ a misura. Prima il caricare a refusa si fa così. Pigliate l’Archibuso, che vi piace, e poi piglierete là sua palla giusta, poi la meterete sopra la mano, ciò è sopra la palma, e la ricoprirete con la polvere, poi metterete detta polvere dentro una canna; poi metterete sopra essa il suo strofinaccio di stoppa, o borra, o qualsivoglia altra cosa. Di poi metterete sopra là palla, medesimamente sopra essa il suo strofinacciolo. Ma prima s’empirà lo scodellino, o’ vero focone, havendo tirato su là ruota e questo si fa acciò la polvere non eschi fuori dalla canna, che così s’intende carricare alla refusa”.
Tuttavia anche il Petrini apre a un modo teoricamente meno empirico di caricare, benché sia abbastanza approssimativo nella dose di polvere, spaziando da una carica al suo doppio o ai due terzi di esso. Scrive, infatti, che: “A carricare a’ mesura si pigliarà il peso della palla e se la palla per esempio pesasse un oncia, gli si darà mezz’oncia di polvere, ciò è polvere di quattro assi in assi: se sarà polvere grossa da monitione, gli se ne da similmente, se bene molte volte vi si da tanta polvere, quanto e la palla, et altri gli danno due terzi della medesima. Ma se sarà polvere fine di cinqui assi in assi glie se ne darà la terza parte ciò è se pesarà la palla un oncia gli si dan otto denari di polvere sopradetta”.
Sarà il caso di spiegare la storia degli assi. La formula era usata dai polveristi e dai bombardieri: ad esempio, quattro-asso-asso significa quattro parti, in peso, di salnitro, una di zolfo e una di carbone, e così pure, analogamente, per la formula cinque-asso-asso; un approccio semplice, ma efficace in cui la proporzione di salnitro aumentava col diminuire del calibro.
Quanto alla granitura della polvere usata, gli studi del generale Rodman, americano, che mise in rapporto dimensione dei grani, peso della carica e velocità di combustione, erano ancora di là da venire. La polvere era vagliata, ma i crivelli non erano standard.
Corni, fiasche
Prelevare la polvere da un sacchetto di pelle non andava bene. Il sacchetto poteva bagnarsi, la polvere appena estratta poteva essere soffiata via dal vento. Come fare? In campo militare, per la polvere da caricare a misura si faceva evangelicamente ricorso ai Dodici Apostoli. Nulla a che vedere con la Storia sacra: semplicemente si chiamavano così i dodici contenitori che si portavano al collo, ciascuno con una dose di polvere premisurata. I contenitori, che insieme a un sacchetto con le palle formavano la patrona, potevano essere in cuoio, ma molto spesso erano in legno di bosso: ed ecco che abbiamo rintracciato l’etimologia della parola bossolo.
Il contenitore fu usato anche dai civili: uno dei ricchi borghesi di Amsterdam che si fecero ritrarre nella Ronda di Notte è immortalato nel gesto di versare polvere da un bossolo in un moschetto a miccia. Al più, si portava una piccola fiasca, o un piccolo corno, per il polverino. Non per la polvere, salvo rare eccezioni. Ma allora, chi usava le fiasche da polvere che sono giunte fino a noi? Erano forse i militari? Pare proprio di no. Gli ufficiali, che potevano permettersi fiasche elaborate, avevano la spada, almeno fino alla metà del Settecento. I sergenti e i tambur maggiori portavano la sciabola, poi il sabro. I sergenti ebbero per un periodo non breve la sergentina, una corta picca.
A usare la fiasca sarebbero dovuti essere allora i militari di truppa, moschettieri e bersaglieri. Che quindi avrebbero avuto fiasche semplici, economiche, prodotte in grande quantità. Come mai non ce n’è giunta nessuna? Evidentemente perché non le usarono. Per un tempo sufficiente usarono i Dodici Apostoli o dei contenitori di canna, quindi ricevettero le cartucce, involti di carta contenenti la palla e la carica. Guarda caso, le cartucce fornite al soldato erano dodici, come gli Apostoli. Allora le fiasche erano usate dai civili? In generale no, nemmeno da loro.
Tuttavia, tra i civili i cacciatori rappresentavano una categoria particolare. Per incominciare, erano ricchi. Il contadino cacciava con le trappole, cercando di non farsi prendere. Chi cacciava con l’arma da fuoco era il re o il nobile. Nella seconda metà del Cinquecento il costo di un’arma a ruota era elevatissimo, e molto alto era anche il costo di un serpe da botta, peraltro indispensabile per cercare di tirare mantenendo la mira. Con l’arma a ruota, si poteva addirittura cercare di tirare al volo. Ma occorreva potersela permettere. Lo stesso vale per le batterie a pietra focaia, dalle prime a Snaphaunce e le sue evoluzioni, ancorché meno costose della ruota. Il tiro al volo non doveva essere così efficace, visto che Forsyth studierà le applicazioni dei fulminati proprio allo scopo di porre rimedio al ritardo tra caduta del cane sulla martellina e partenza del colpo. Ma ovviamente il cacciatore voleva provarci.
Mettiamo insieme il cacciatore ricco, l’arma da fuoco e l’importanza della rapidità di caricamento dell’arma in ambito venatorio, per l’eventuale ripetizione del colpo, e capiremo perché a caccia si usava la fiasca da polvere. Sebbene dotate di beccuccio, raramente questo era usato per versare la polvere direttamente nella canna; infatti, se in canna fossero rimasti dei residui incandescenti il fuoco sarebbe risalito dalla polvere alla fiasca, con immediata esplosione di quest’ultima; molto più spesso, dalla fiasca la polvere si versava nel palmo della mano fino a coprire la palla, come spiegato dal Petrini. Le fiasche con il beccuccio che fungeva anche da dosatore sarebbero venute in seguito.
Il contenitore della polvere poteva essere un corno, che si prestava bene all’applicazione di un beccuccio all’estremità. Ma, salvo eccezioni, un semplice corno non avrebbe dato testimonianza del rango del suo proprietario. Ecco il motivo delle fiasche da polvere, autentiche opere d’arte dalle varie fogge, ma sempre di raffinata fattura e chiaramente distintive della posizione sociale del proprietario: come quelle di forma grossomodo triangolare ricavate da un palco di cervo, animale che solo il Re poteva cacciare. In alcuni casi, anche dai suoi invitati e dalla corte, ma sempre per gentile concessione del sovrano.
L’identificazione dell’animale nobile, della preda da Re, dava immediatamente alla fiasca da polvere quella dignità che nel fucile era affidata all’abilità dell’azzaliniere, alla qualità del calcio, alla ricchezza dell’incisione e della decorazione. Non che la fiasca fosse priva di decorazioni, ne abbiamo degli esempi straordinari.
Per chi non disponeva del palco di cervo, la forma di questo era talvolta imitata in avorio, materiale altrettanto prezioso, e ciò diede origine alle fiasche triangolari di epoca successiva, in metallo, che si diffusero ovunque nel corso del XVII secolo: la forma non aveva perso significato e il materiale non era nobile, ma si seguiva la forza della tradizione.
Altre fiasche avevano la forma di una borraccia e si decoravano a smalto, a champlevé o cloisonné: erano rotonde, una forma difficile da fare e per questo costosa. Alcune, specialmente in Giappone, avevano un disegno piriforme, che ha dato origine alla denominazione francese delle poires à poudre. In questo caso erano decorate con il Mon del proprietario, il che ci dà un’indicazione sulla diffusione.
Per quanto nell’antico Giappone l’arma da fuoco fosse considerata, per lungo tempo, come qualcosa di poco cavalleresco, a caccia fu usata solo dalla classe dominante dei piccoli e grandi feudatari. Ma sono ampiamente documentati anche altri materiali, meno preziosi del corno e dell’avorio e nemmeno in metallo, bensì realizzati in tartaruga o semplice cuoio, che non potevano essere impreziositi da oro o smalti, ma che grazie all’abilità degli artigiani riuscivano comunque ad identificare chiaramente lo status dei loro proprietari.
Per la storia dell’Occidente, i disegni e i dipinti d’epoca giunti fino a noi sono significativi. I militari hanno la patrona; ce l’ha anche il “lanzo”(lanzichenecco) che reca un corno da polvere. Forse gli serviva per ricaricare i bossoli. Altrettanto significativi sono gli oggetti che ci sono giunti, per la gran parte preziosi, artistici, riccamente decorati, che abbiamo avuto modo di ammirare da Czerny’s e nelle vetrine del Metropolitan Museum of Fine Arts di New York. Magnifici accessori, oggetti d’arte che testimoniano di utenti ricchi, è vero, ma forse anche di un periodo in cui la caccia era una nobile quanto antica attività, non soffocata da tasse, balzelli e circolari.